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Clima, Modelli Economici e Migranti

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Il nostro collega Marino Mazzon, coordinatore del Gruppo di Lavoro sui cambiamenti climatici della FOIV, (Federazione Ordini Ingegneri Veneto) risponde ad alcune domande sull’argomento.

 ABSTRACT

La situazione del clima è preoccupante, il nuovo rapporto dell’IPCC, uscito a luglio, ha confermato che l’aumento della temperatura supererà gli 1,5°C di cui all’accordo di Parigi, prima del 2040, a meno di drastiche riduzioni delle emissioni di CO2 nei prossimi dieci anni. Purtroppo, a cinque anni dall’accordo, non si nota ancora un’inversione di tendenza nelle emissioni di CO2, quindi la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera continua ad aumentare. In Italia il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima prevede grandi cambiamenti entro il 2030, ma è necessario un grande sforzo tecnico e organizzativo per raggiungere questi obiettivi. Occorre inoltre pensare ad un modello economico diverso da quello attuale, che è basato solo sulla crescita del PIL, e ha prodotto l’uso insostenibile delle risorse del pianeta. Vanno ripensate le fonti energetiche, nonché i sistemi di accumulo (oggi assolutamente insufficienti) e le reti elettriche. In tutto questo i paesi ricchi hanno le maggiori responsabilità della situazione attuale, e il mutare delle condizioni climatiche aumenterà le difficoltà dei paesi più poveri, e di conseguenza il numero di migranti verso i paesi ricchi. Il problema, quindi, va affrontato in maniera condivisa, possibilmente in sede ONU, destinando risorse atte a ridurre le disuguaglianze tra i popoli della terra.

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L'INTERVISTA

La situazione del clima è seria e preoccupante; in luglio è uscito un nuovo rapporto dell’IPCC, il più autorevole consesso mondiale di esperti sul clima. Che cose dice di nuovo?

Forse è utile ricordare che dire IPCC significa dire ONU ed il nuovo rapporto è quello emesso dal Working Group 1 (WG1), che si occupa delle basi scientifiche dell’analisi del clima.

Questo rapporto, intitolato “The Physical Science Basis”, aggiorna l’analisi della situazione climatica e la previsione della sua evoluzione fino a circa il 2100 in funzione di alcuni scenari in merito alla previsione crescente di emissioni di CO2 (o meglio di CO2 equivalente, ovvero della somma dei gas serra). Lo scenario di riferimento sarebbe quello conseguente all’Accordo di Parigi, cioè di sostanziale riduzione delle nuove emissioni di CO2, fino al loro azzeramento intorno al 2050; si tenga conto che gli altri scenari sono meno ottimistici.

I risultati del lavoro sono complessi e non è possibile riassumerli in questa sede, ma possono essere scaricati da questo LINK.

La novità di quanto proposto consiste nella sua assertività, tale da togliere ogni residuo dubbio. Di seguito i punti principali:

  1. E’ accertato che le attività umane, specialmente quelle in atto da dopo la seconda guerra mondiale, sono responsabili della variazione climatica.
  2. I cambiamenti sono stati repentini, molto forti, e senza precedenti rispetto a quelli avvenuti molte decine di migliaia di anni fa.
  3. Gli effetti di questa situazione, ed in particolare la sempre maggiore frequenza di eventi estremi, stanno avvenendo in modo più rapido del previsto.
  4. La maggiore affidabilità dei modelli climatici consente di prevedere gli andamenti futuri con minore incertezza e questi cambiamenti sono molto preoccupanti.
  5. L’aumento della temperatura supererà gli 1,5 °C di cui all’accordo di Parigi prima del 2040 e andrà oltre, a meno di “profonde riduzioni delle emissioni di CO2 equivalente nei prossimi decenni” (prossimi significa due o tre).
  6. Gli scenari di aumento delle emissioni di CO2 prevedono una minore efficacia della capacità degli oceani e della vegetazione di assorbire la CO2.
  7. La CO2 presente in atmosfera resterà presente per secoli: quindi gli effetti di quanto succede (o non succede) oggi si sentiranno ben oltre il 2100.
  8. Con un ulteriore riscaldamento globale si sperimenteranno ovunque sempre peggiori effetti “simultanei e multipli”: in particolare nello scenario a 2°C saranno più diffusi rispetto allo scenario a 1,5°C e ancora più importanti per i livelli maggiori.
  9. Non possono essere esclusi” esiti considerati a bassa probabilità, come il collasso della calotta glaciale e bruschi cambiamenti della circolazione oceanica; questi fenomeni sono parte della valutazione del rischio.
  10. Limitare il riscaldamento globale richiede la limitazione delle emissioni cumulative raggiungendo almeno emissioni nette pari a zero (notare la parola “almeno”).

Il nuovo rapporto può essere scaricato da questo LINK.

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Nel 2016 ben 195 Paesi hanno sottoscritto l’accordo di Parigi sul clima e si sono impegnati a invertire la rotta per diminuire le emissioni di CO2. Dopo 5 anni, si nota un’inversione di tendenza nell’aumento delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera?

Purtroppo, non si nota affatto un’inversione di tendenza. E qui sta il senso dell’efficace sarcasmo di Greta Thunberg (i vostri sono dei bla, bla, bla); a mio sentire sembra ci sia una forte discrasia fra gli obiettivi dichiarati dai governi (peraltro non tutti i governi sono concordi su questo punto) e la volontà o addirittura la capacità di sviluppare programmi e azioni che consentano di raggiungerli nei tempi fissati: il 2030 e il 2050. Si sa che la pandemia ha causato un calo del 6% circa delle emissioni; queste ora sono risalite e saliranno ancora. Ricordiamo che l’umanità sta emettendo circa 50 miliardi di tonnellate di nuova CO2 l’anno che già oggi il pianeta non è in grado di assorbire e che si sovrappongono a quelle degli anni precedenti; negli anni a seguire la concentrazione è destinata a aumentare e a causare ulteriori aumenti di temperatura. Solo un accordo globale sulle azioni da mettere in atto può portare verso quell’obbiettivo che, visti i meccanismi dell’attuale sistema geopolitico ed economico, risulta davvero difficile da raggiungere; in caso contrario si verificherà inevitabilmente la catastrofe annunciata dall’IPCC.

Un esempio di questa discrasia fra annuncio degli obiettivi e capacità di raggiungerli si trova nel nostro PNIEC, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, che fra l’altro stabilisce di produrre il 30% dell’energia elettrica l’anno da fonti rinnovabili entro il 2030, cioè entro 8 anni. In questo lasso di tempo la nostra nazione dovrebbe riuscire a coinvolgere le regioni; a definire dove e come produrre; a fare le gare per acquisire i sistemi; a integrare questi nella rete di distribuzione che dovrà essere modificata; a porre in atto un numero enorme di altri provvedimenti, per tutti i quali dovranno essere allocate le necessarie risorse economiche, e che andranno messi in sequenza temporale in modo da assicurarne il completamento. Allo scopo occorrono fortissime competenze di Project Management e di Progettazione di Sistema, oltre a metodiche e volontà eccezionali.

Proiettando la problematica di metodo appena descritta sulle dinamiche mondiali, considerando inoltre le oggettive difficoltà politiche ed economiche, pare lecito porsi la domanda sulla reale possibilità di raggiungere gli obiettivi nei tempi necessari (2030 e 2050) se tutti gli stati non si mettono assieme con estrema decisione.

Si aggiunga che l’opinione pubblica tratta il clima come uno scenario remoto rispetto ai problemi dell’immediato e non ne comprende appieno l’importanza. E’ invece vero che il clima è il problema dei problemi, la cosa più importante e imminente che l’umanità, tutta l’umanità, deve affrontare.

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Quali sono le azioni più efficaci per diminuire le emissioni di CO2 che possono essere messe in atto dai governi?

Purtroppo, non ci sono “le azioni più efficaci”: occorre agire su una rosa molto ampia di interventi, ognuno dei quali darà il suo contributo.
Decarbonizzare le economie e i processi intorno ai quali funziona il mondo, perché di questo si tratta, è una questione terribilmente complessa: il costo della decarbonizzazione, come calcolato dagli economisti e presentato nelle sedi istituzionali, corrisponde a circa 1,5% del PIL Mondiale l’anno; parlando da comune cittadino sarei dispostissimo a spenderlo, date le conseguenze economiche e sociali, drammaticamente superiori, del mancato rispetto dell’obiettivo dell’Accordo di Parigi.

Per tornare alla domanda, le azioni più efficaci, quanto meno sul piano politico globale, ritengo siano due:

  1. La prima, dirompente dal punto di vista politico-filosofico-economico-valoriale, è definire un modello economico diverso da quello attuale che è basato solo sulla crescita e sul PIL e che ha prodotto l’uso insostenibile delle risorse: la sostenibilità non è compatibile con la crescita e, per stabilire il livello di benessere, sono necessari parametri diversi che dovranno essere compatibili anche con la necessità dei paesi in via di sviluppo di raggiungere condizioni di vita dignitose.
  2. La seconda, considerata molto efficace dagli economisti, è quella di introdurre ovunque come strumento di disincentivazione alla produzione con combustibili fossili la carbon tax, forse seguendo il modello svedese, cioè oltre 100 € per tonnellata di CO2 emessa; la sua introduzione andrebbe gestita nell’ambito di un accordo mondiale per evitare ritorsioni sui mercati.

Sul piano più tecnico-operativo non c’è dubbio che per arrivare a zero netto di emissioni di CO2 occorre quindi agire su un numero sterminato di fronti: certamente quello della produzione di energia da fonti rinnovabili e della individuazione delle corrette tecniche per realizzare sistemi di accumulo che compensino l’intermittenza delle fonti; ma anche rivedere completamente le modalità di produzione.

Ad esempio è indispensabile trovare metodologie, oggi ancora sconosciute, che consentano di produrre acciaio e cemento senza emettere CO2: si consideri che ogni tonnellata di acciaio prodotta in altoforno ne produce una di CO2 e che altrettanto accade per il cemento, per una produzione annuale di 2 miliardi di tonnellate di acciaio e 4 miliardi di tonnellate di cemento. Anche la produzione di fertilizzanti, così come gli allevamenti, ed infinite altre attività sono causa di importanti livelli di emissione.

Da non dimenticare la necessità assoluta di introdurre buone pratiche individuali e quindi la sobrietà nei consumi, indispensabile non solo nei paesi occidentali, ma anche in paesi emergenti come la Cina.

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Il settore energetico è tra i maggiori responsabili nelle emissioni di CO2. Quali alternative sono possibili?

La produzione industriale pesa per il 31% delle emissioni; la produzione di energia elettrica per il 27%; l’agricoltura e l’allevamento per il 19%; i trasporti per il 16%; il riscaldamento e condizionamento per il 7%: la responsabilità è di fatto distribuita e in realtà si deve intervenire in tutti i settori.
Ponendo l’accento sull’energia elettrica abbiamo già accennato alle fonti rinnovabili e al conseguente ridisegno delle reti elettriche per poter sfruttare tutte (sottolineo tutte) le modalità di produzione.
Quanto a intervenire sul trasporto, sia esso elettrico o a idrogeno verde aumenta di molto la quantità di energia elettrica da produrre!
Le rinnovabili portano con sé il problema dell’accumulo, per il quale occorre trovare nuove soluzioni e tecnologie dal momento che le batterie sono ambientalmente insostenibili.
In questo quadro veramente complesso, occorre pensare anche al contributo che potrebbe dare l’energia nucleare. E’ questo un tema difficile e politicamente esplosivo, ma, vista la criticità del futuro, è in discussione nell’Unione Europea la possibilità di dichiarare il nucleare fra le fonti di energia sostenibile in modo da poter coprire una quota intorno al 10% del fabbisogno almeno fino a quando sarà matura la tecnologia della fusione che dovrebbe risolvere buona parte dei problemi[i].
Per concludere porrei anche l’accenno al fotovoltaico per il quale c’è molto entusiasmo; è necessario però fare alcune riflessioni sull’entità del problema: limitandoci alla produzione del solo idrogeno verde, l’Italia si è data è l’obiettivo di 1,6 Mton l’anno al 2030; per il suo raggiungimento sono necessari circa 85 TWh l’anno da rinnovabili con una potenza installata di circa 75 GW (più accumulo); allo scopo si dovrà triplicare l’attuale produzione di fotovoltaico nazionale.
Tutti questi temi sono estremamente complessi e richiedono importanti capacità amministrative e gestionali oltre che ingegneristiche di progettazione di sistemi e soluzioni di ampia scala oltre all’apporto di diverse tecnologie e metodi.

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I paesi ricchi hanno sicuramente le maggiori responsabilità sulla crisi climatica. Cosa possono fare adesso per riequilibrare la situazione a livello mondiale?

Le responsabilità dei paesi ricchi sono storiche e hanno influenzato tutto il mondo, perché il sistema economico mondiale è stato progettato a loro beneficio e ha di fatto limitato fortemente la capacità di svilupparsi degli altri. Gli effetti climatici dello sviluppo incontrollato ricadono in misura maggiore sui paesi che hanno le minori risorse per farvi fronte; il caso dell’Africa è emblematico.
I Paesi ricchi hanno annunciato l’intenzione di predisporre misure di aiuto alle nazioni povere per consentire lo sviluppo in loco della ricchezza necessaria al giusto benessere. Questo soprattutto al fine di ridurre le migrazioni: le sempre maggiori difficoltà legate al mutare delle condizioni climatiche, se non gestite con eccezionale forza e capacità, porteranno povertà e quindi guerre con conseguenti flussi migratori incontrollabili per raggiungere le nicchie climatiche ove l’agricoltura può essere praticata con successo e gli animali ed il genere umano possono sopravvivere.
Ancora una volta, il problema centrale è quello di una visione condivisa, da maturare in sede ONU, in modo da destinare risorse atte a ridurre le disuguaglianze e creare le condizioni locali per una vita normale. Questo implica anche la necessità di lavorare con tutte le forze per assicurare condizioni di pace, perché un futuro condizionato dalla gravità climatica non generi guerre per le risorse vitali, in primis l’acqua.
Per concludere, la situazione è di una complessità e urgenza eccezionali e spero, con questa chiacchierata, di aver dato qualche elemento di informazione e riflessione e di aver fatto capire quanto sia importante che i governi reagiscano prontamente e con una visione realistica alle moltissime questioni che tali problematiche pongono, per la prima volta, a tutta l’umanità.

NOTA

[i] La tecnologia dei piccoli reattori è in sviluppo per poter pensare di partire, forse intorno al 2030, con applicazioni dedicate ma importantissime, ad esempio per alimentare e ricaricare i sistemi di accumulo della produzione da rinnovabili, o per la produzione di acqua potabile, o per la produzione di idrogeno verde.
La fusione appare come la soluzione definitiva e richiede, nel complesso, ancora qualche decennio prima di arrivare a disporre di centrali commerciali, ma ultimamente ha avuto importanti sviluppi che fanno pensare a tempi più brevi. Infatti, per parlare delle iniziative più note, da una parte c’è lo sviluppo di ITER, in Francia, che punta a completare, forse prima del 2030-35, il grande dimostratore tokamak che produce più energia di quella che consuma, per poi arrivare a un sistema industriale verso il 2060. Dall’altra sembra interessante l’iniziativa americana del progetto SPARC, su cui investe anche ENI, che dovrebbe completare entro il 2025 un dimostratore tokamak analogo a ITER, ma avente taglia pari a circa un decimo, per poi arrivare ad avere il sistema commerciale intorno al 2030 e questo sarebbe importante. In prospettiva, molti piccoli reattori a fusione come SPARC avrebbero applicazioni almeno analoghe a quelle riassunte prima per i piccoli reattori a fissione.

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